a proposito di...
 

 

Apologo

 

di Mario Aldo Toscano


La dimora era grande, veramente molto comoda, e mevigliosamente, sebbene assai sobriamente, arredata. Ma ciò che suscitava il massimo di curiosità e di interesse erano le volte e le pareti. Le volte mostravano un andamento assai irregolare, con incavi, feritoie, squarci, anfratti talvolta stretti, talaltra ampi tra i quali lo sguardo stupito dei più piccoli si perdeva sospinto da un groviglio di illimitate fantasie e di incompiuti ghirigori; e poi protuberanze, gobbe, rilievi, rigonfiamenti che cadevano verso il basso come strane cupole e cupolette convesse e autentiche stalattiti che si prolungavano quasi fino al suolo come guglie rovesciate. E i colori? Assolutamente stupefacenti: interi arcobaleni si concentravano su superfici assai limitate e però quasi incise da combinazioni di grande intensità e continuità che formavano un caleidoscopio perennemente mutevole e sempre luminescente; e zone verdi di varia tonalità e gradualità che stabilivano pause ben modulate in quelle superfici che si stendevano in alto e coinvolgevano tutto e avevano un solo paragone possibile, il cielo stellato delle notti estive.

Nella sala più grande, che era il soggiorno e il luogo di lavoro, erano dislocate poltrone e scrivanie e tutti si muovevano tra le une e le altre consultandosi e prendendo carte e libri dagli scaffali e dalle librerie disposte contro le pareti, in maniera del tutto irregolare ma con riconosciuta sapienza logistica; candelabri e piantane emanavano luci calde e diffuse. Accanto alle scrivanie grandi, tavoli più piccoli e sedie più piccole fornivano ai giovinetti comodi posti di lavoro per lo studio e l’educazione avanzata, sviluppata in sintonia e continua comunicazione con gli adulti. Erano attratti dalle grandi carte geografiche che pendevano dalle pareti e sulle quali si fermavano gli sguardi con l’ambizione di scoprire regioni sconosciute e visitarle percorrendole in lungo e in largo senza mete precise.

Alla lunga tavola, elegantemente disposta nella sala attigua con piatti bianchissimi e bicchieri brillantissimi, sedevano ad orari stabiliti tutti i componenti della grande famiglia. Facce burbere, facce bonarie, facce distese, facce astute, facce sarcastiche, facce fredde, facce calde, facce macilente, facce robuste, facce esili, facce incerte, facce decise, facce tristi, facce allegre, insomma facce di tutti i tipi, maschili e femminili, tutte mobili, di vecchi, adulti, adolescenti e bambini si alternavano sulle sedie dorate e costellate di fregi.

Dalla grande porta, entravano ed uscivano di volta in volta or l’uno or l’altro dei membri di quella famiglia-comunità, rientrando a tutte le ore, stanchi o anche affamati, andando a riposare nelle loro stanze o servendosi di vivande calde all’angolo-bar appositamente attrezzato.

Fuori, il paesaggio era quanto di più singolare e di più strabiliante si potesse immaginare. Giochi di acque e di marmi, di muschi e di rocce, di giardini pensili, di arbusti carichi di fiori e finanche di alberi con le chiome quasi capovolte si alternavano in andamenti veramente pittoreschi, accompagnati da folate di suoni e melodie sempre variate e ondeggianti dal pianissimo al fortissimo, dal largo, all’andante, all’allegro. Sì, era un ambiente fantastico, per quanto reale.

La residenza nei pressi di Trigrad era splendida ma non era da meno quella estiva di Lipari, abbastanza distante, frequentata in particolare durante le vacanze. Sebbene fosse tutta annerita da anni ed anni di vicinanza e convivenza con quel colosso burbero, nervoso e imprevedibile di Vulcano - che spesso esplodeva con un misto di buonumore e di malumore e dava spettacolo con le sue intemperanze scintillanti e le sue scie di languidi rivoli di fuoco ansiosi di tuffarsi nel mare per un bagno ristoratore - , non era meno sontuosa: con le sue terrazze, i suoi giardini pensili, le sue sale levigate e scure, i suoi corridoi interminabili e i suoi piazzali di librazione verso le lucide e mobili superfici del mare. Era bello infatti spingersi sul mare, girovagando tra le barche, le vele, le isole, i porti, i moli e i moletti, le spiagge, e tra i veli delle donne e le tuniche bianche di giovinetti e anziani. Ma assolutamente divertente, per quanto anche un po’ pericoloso, era insidiare le due grandi masse mobili, quella dell’acqua e quella dell’aria, e sconvolgere per qualche tempo la loro abituale concordia e le lunghe pause benevolenti e quasi sonnolente.

Andando in giro tutti, grandi e piccini, avevano le loro preferenze, che qualche volta erano vere e proprie passioni, e in taluni casi vere e proprie ubbie o autentici aneliti sportivi. Qualcuno accumulava nella sua camera granelli preziosi di sabbia di tutti i colori raccolti nei deserti, altri preferivano microscopici alveoli di ghiaccio da intessere in meravigliosi mosaici continuamente composti e ricomposti nei momenti di riposo e a seconda delle temperature, altri ancora si divertivano a spingere qua e là petali di fiori e piccoli semi, raccogliendoli spesso in zone disposte in maniera tanto artistica quanto arcana; altri, con spirito femminile, raccoglievano piume, di tutti i tipi, cadute da uccelli piccoli e grandi, variopinte e multiformi, da mettere insieme per quadri di grandezze smisurate e in rilevo; altri ancora preferivano buttarsi in scorribande assai rischiose, avvitandosi su se stessi e calando in mare o sulla terra senza alcuna remora o forma di rispetto. Ed erano infatti assai poco amati, per il loro atteggiamento da energumeni, imprevedibile e irresponsabile, da tutti gli altri che esercitavano una variabile moderazione su se stessi, obbedendo ad una socializzazione di antica data e ad un contemperamento delle comuni esigenze nel rispetto delle soggettività più forti e delle soggettività più deboli, spesso le più amabili e in effetti amate.

Euros jr., o anzi Euruscos nel buffo vezzeggiativo dei più grandi, dal viso tondeggiante, mobile e lucido, uno dei più promettenti e stravaganti tra i giovani della combriccola, con un debole per i mantelli di seta o di lana e seta, aveva una grande propensione per i numeri, segni misteriosi ma anche densi di significati che da apprendista ermeneuta relazionale riusciva a decifrare almeno sotto l’aspetto della quantità e sui quali si esercitava in combinazioni assai effervescenti. Ma se i numeri erano un amore assiduo, nutriva un’autentica passione per le parole dette e scritte e ne raccoglieva una gran mole, selezionandole per oggetti e per soggetti e per epoche e paesi. Quelle che non lasciavano segni apparenti, venivano da lui catalogate in un suo personale volume ‘compresso’ in tanti piccoli volumetti, che riapriva e svolgeva spesso in segreto, ripassando le parole e mantenendole vive come se fossero appena uscite dalle bocche di quanti le avevano pensate e pronunciate. Così, per esempio, era preso sempre da una speciale e radicale emozione nel ripetere una frase assai antica, come:

Andare, andare; vagare, vagare: ma nessuno si muove nel mondo anche quando si muove. Non sa forse che la sua radice è quel filo che lo tiene legato al centro della terra come un aquilone nelle mani di un bambino. E la terra vive solo upò gaias.

Che la terra potesse vivere solo sotto la terra - come aveva letto durante le sue notturne veglie pensose nell’Ippolito dell’archeologo poeta Euripide, che peraltro aggiungeva di essere profondamente innamorato di ciò che stìlbei catà gen o anche krùptei nefèlais, cioè giace sotto la terra o si nasconde tra le nubi - non era affatto sorprendente per lui. Si rendeva infatti perfettamente conto che la superficie su cui viveva e consumava i suoi giorni fosse un’illusione e quindi era un modo di non-essere come espressione dell’essere. Ma il punto era che ne veniva profondamente coinvolto: e riteneva che dopotutto fosse un’immagine di se stesso; evanescente, come la sua attività.

Un’altra espressione che aveva recuperato chi sa dove recitava con una certa crudezza:

Mondo, mondo: esiste solo se im-mondo. Mondarsi è impossibile, se siamo nel mondo. Uscire dal mondo, uscire da se stessi. Senza perire, ritrovarsi nell’anima.

Erano momenti di grande introspezione e anche di speciale dialettica soggettiva; si domandava dell’anima, lui che non aveva un corpo e che perciò non capiva che cosa fosse l’anima; che altri fossero in grado di capire più di lui, era possibile. Ma certamente ipotizzava una separazione di cui l’altro temine, ossia il corpo, poteva per lui avere un solo significato: quello di un ‘grave’, come qualche veteroveggente suggeriva, ossia di un’impossibilità, di una inanità, come quella che sperimentava quando voleva salire sempre più in alto e non vi riusciva, subendo una pressione verso il basso che lo opprimeva e gli impediva di respirare; mentre, scendendo verso il basso e mettendosi alle sue altezze abituali, non ne sentiva minimamente il peso e vi permaneva a suo agio, con un senso di piacevolezza suo e, come poteva facilmente testimoniare, di tutti gli astanti.

Ma non aveva solo una vocazione classica o classicheggiante, era anche, essendo in grado di attraversare il tempo dall’altroieri fino all’oggi, dotato di sensibilità alquanto innovative: era infatti molto curioso dei modi assai originali di piccoli esseri verticali, normalmente grigi e poco variati, salvo alcuni altri con fili sottilissimi e brillanti che contornavano e coprivano una tonda protuberanza posta in alto e normalmente assai più gradevolmente colorati e ondeggianti su sottili e corti steli che si muovevano miracolosamente sul suolo con andirivieni anch’essi assai bizzarri. Spesso costoro utilizzavano piccoli e medi ritagli bianchi su cui deponevano segni regolari o irregolari. La sua sorpresa e anche, bisogna ammetterlo, il suo compiacimento per le facilitazioni nell’attività prediletta di raccolta, selezione e di archiviazione, fu quando riconobbe, grazie ad una intuizione indubbiamente penetrante, che si trattava di ‘parole’. La parola aveva un suono non molto gradevole, anzi certamente volgare; preferiva, sebbene sapesse che aveva nobili origini nel greco parabolè, verbum o anche logos: ‘parole-pensieri’ che avevano alcunché di religioso e un’eco prolungata verso quelle regioni che lui conosceva molto bene, essendo sospese nell’aria, nell’etere, insomma in quella regione che era esattamente il suo ambiente, sospeso tra terra e cielo.

Si rendeva perfettamente conto di questa invenzione portentosa, ma capiva, sulla scia del resto del suo lungamente frequentato e venerato maestro Platone, che ogni vera invenzione era una conquista ma anche una perdita. In questo caso della memoria, che pure veniva contraddittoriamente avvantaggiata e ‘democratizzata’.

Appartato e solitario meditava su queste cose certamente episodiche e disparate nelle quali era difficile trovare un legame ‘logico’ ma sentiva di ritrovarsi almeno come fascino e sentimento.

Così internamente turbato e distratto si infilò in una contrada collinare e boscosa. Girovagando appunto tra gli alberi, dirigendo lo sguardo ubiquitario verso le tracce dei piccoli sentieri e gli interstizi da un albero all’altro, penetrando nel sottobosco così denso di materiali vivi, trovava abitualmente grandi quantità di sapide sorprese tra gli insetti, le formiche, in primo luogo, sempre capaci di individuare la loro strada mettendosi in fila perfetta; i ragni, impegnati da mattina a sera a tessere le loro tele che brillavano al sole; i grossi coleotteri, tozzi, slanciati, punteggiati o del tutto neri, perennemente intenti a selezionare con le loro antenne qualcosa di indecifrabile da inserire nel loro palinsesto mentale. Si imbatteva anche in mosche, cimici verdi, vespe, mosconi per i quali aveva poca simpatia e si divertiva a sconvolgere i loro voli mandandoli dalle parti più impervie e contrarie alle loro bieche aspirazioni. Rimaneva al contrario estatico e immobile a seguire le aeree evoluzioni delle farfalle, la cui giornata era così esoterica quanto quella delle nuvole.

Strisciando con le sue frange per terra, sollevava anche le foglie che in numero infinito e multicolore tappezzavano il suolo e le osservava mentre volteggiavano per un po’, mostravano i loro contorni così singolari e le intersezioni di ricami sottili che le attraversavano da cima a fondo. Ne era radicalmente affascinato e sarebbe rimasto a lungo, muovendosi piano piano e quasi di soppiatto, a guardare e a pensare preso intensamente da quel mix di attenzione e distrazione che spesso vi manda verso un altrove sovrabbondante di ogni dove, tuttavia effimeri, se non fosse stato attratto da alcune di esse veramente stranissime ai piedi di una quercia che stentavano a sollevarsi da terra per quanto le sospingesse con una certa energia: foglie grandi, pesanti, dispiegate, e visibilmente costellate di segni di color nero, marrone, rosso, finanche verde intenso. Quale non fu la sua meraviglia quando, concentrando lo sguardo, non tardò a individuare parole e parole scritte con inchiostri di vario tipo, ma proprio parole scritte. Con stupore e con una buona dose di sottile ansia si mise a raccogliere quelle foglie, che rappresentavano davvero una combinazione unica essendo foglie ma anche fogli, di genere femminile e maschile insieme. Era, non c’è che dire, un’occasione prodigiosa per incrementare le sorprendenti pagine ‘dell’album del suo passaggio’, come un suo compagno di studio e di lavoro aveva già proposto di chiamare non senza poesia la sua collezione.

Mise dunque nel suo tascapane non meno di un centinaio di quelle foglie, ripromettendosi di prenderne altre in seguito, dopo aver meglio analizzato e studiato il primo insieme. Ritornò alla mastodontica e maestosa residenza, sgusciò tra i corridoi, incontrò e salutò con rapidi cenni i suoi colleghi piccoli e grandi, e visibilmente desideroso di rifugiarsi nella sua camera, aprì la porta, la richiuse, si sedè sulla comoda poltrona e si apprestò a disporre sul grande tavolo i suoi reperti.

Mise in fila le foglie-fogli e prese a leggere; sollecitato fortemente dai significati, ossia dal rimbombo e dalle risonanze che tali parole producevano in quella formidabile sfera di esilissimo tessuto dai suoi antichi e amati classici greci chiamata Nous, sempre presente e sempre assente nelle sue impertinenti intermittenze dal più grossolano tessuto della cosiddetta vita considerata come co-esistenza. La quale dopotutto designava l’antico Chaos, mai estirpato – e qui mostrava la sua perplessità rispetto all’ottimismo che ancora i suoi amati classici greci mostravano di professare ipotizzando un benefico passaggio al Kosmos - dal divenire del mondo come egli lo interpretava dal suo punto di osservazione e di azione, partecipando dall’interno a quel divenire, tuttavia molto affollato di ‘individui’, gradevoli e sgradevoli sui quali esercitava pensieri e giudizi piuttosto differenziati e molto spesso assai severi. Tali documenti riguardavano in massima parte quegli strani animali che, per quanto assai piccoli e non molto eleganti, capaci di muoversi in maniera verticale, avevano da tempo maneggiato e rimaneggiato la terra, scavando, costruendo in lungo e in largo, in alto e in basso, abbattendo, distruggendo quello che avevano edificato, rimettendo a posto e sconvolgendo a più non posso ciò che avevano prima ordinato e riordinato, stando insieme, dividendosi, colpendosi con lance e con bastoni, o accarezzandosi e abbracciandosi, di notte e di giorno, lanciandosi pietre piccole e grandi, dandosi fuoco o standosene al sole a rosolarsi. Insomma facendone di tutti i colori. Perciò suscitavano una grande curiosità e insieme un grande timore.

Ma non era il momento di proseguire in quelle impervie direzioni; bisognava intanto preparare, per così dire in prima istanza, una sequenza, con molti virgolettati, corrispondenti alle scritture originarie di quelli che potevano essere ben considerati pre-papiri naturali.

“Quando una società è in movimento le stesse classi dirigenti sono percorse da sentimenti di frustrazione, sono paralizzate dal terrore del nuovo che non capiscono e continuano a ripetere come dei dischi rotti le parole che hanno imparato da giovani e che non contano più. Nulla verrà dal di fuori”.

Aveva sentito e sentiva parlare - in quella lingua strana e così densa di sottolignue, da perdere la testa qualora si volesse trovare eventualmente qualche forma di unificazione - di società: aveva effettivamente in mente una convergenza di singoli verso un punto dove stavano insieme, distinguendosi per un via vai di movimenti, di scavi nella terra, di accarezzamenti del suolo, di costruzioni dotate di aperture luminescenti, di aggeggi semoventi, anche volanti, e di una quantità incredibile di altre cose e ‘azioni’. Ma non capiva esattamente di che cosa si trattasse, sebbene vedesse una certa costanza di queste aggregazioni nonostante il cambiamento, una specie di morte e resurrezione continua, dei partecipanti. Se poi si infilava talvolta, come aveva sperimentato, tra quei soggetti, la sua meraviglia aumentava irreparabilmente, visto che, per usare il loro infragergo, si amavano e si odiavano, si accarezzavano e si calpestavano, si riunivano e si separavano, si ricreavano e si spegnevano l’un l’altro. In realtà era un mistero e, nonostante le sue applicazioni di giovane studioso di fenomeni terrestri, non era riuscito a penetrarlo se non in parte, e solo nelle apparenze. Se poi doveva inoltrarsi verso l’espressione ‘classi dirigenti’ vedeva del tutto buio, non avendo affatto chiara l’idea del ‘potere’ che gli sembrava stesse alla base di quel costrutto per il quale alcuni, con maniere diverse, educate o maleducate, usavano la frusta ed altri erano frustati. Si domandava inoltre, quando metteva in atto nella mente la dimensione del tempo con la quale anche lui aveva a che fare, verso quale direzione andassero in gnerale, rotolando ogni ‘complesso’ quasi come una palla lungo il pendio di un monte e zigzagando tra rocce, fossi, baratri, emergendo, precipitando e lasciando scie rossastre, abbandonando masse informi di singoli inerti in anfratti e pianori, ed emanando vapori inestimabili di cosiddetto ‘dolore’, ossia di un odore acre che si levava da quegli esseri, vagolando qua e là nell’aria senza approdi di alcun genere e dissolvendosi infine nel silenzio.

Prese un’altra foglia:

“Ciò che in essi grandeggia è una forte consapevolezza problematica ricavata e nutrita da una partecipazione diretta, ma non immediatistica, ai problemi del tempo e da un eccezionale “senso storico”.

Capì che si trattava, ancora una volta di una distinzione tra ‘soggetti’ – aveva sentito questa espressione che per lui semplicemente significava esseri presi nella loro solitudine di esseri singoli sebbene apparentemente liberi di girovagare nello spazio e nel tempo – che avevano raggiunto una meta tra le più serafiche, celebrate e inconsistenti che veniva chiamata ‘storia’, ossia una specie di sede eterea e retrodata alla quale far capo volendo gli altri ‘ricordare’ ciò che era stato fatto, da chi e con quali esiti. Anche qui però si imbatteva in un mistero: ossia in una modalità per cui alcuni membri di quella congregazione venivano ritenuti sempre presenti per quanto assenti ormai da lunghissimo tempo e travolti anch’essi dal flusso delle esistenze, e richiamati ad un colloquio che metteva presente, passato e futuro come un linguaggio al di sopra di ogni linguaggio. Il tempo, dunque: una perdizione ma anche una salvazione. Non riusciva a capire se fosse una falsità o una verità, o un’astuzia geniale, con la quale anche lui doveva fare i conti, senza trovare il bandolo della matassa. Già. proprio una matassa, con il suo sound burlesco di ‘matassa’.

Continuava a scrutare con euristica attenzione:

“I problemi che fronteggiano oggi l’individuo non sono più un atto individuale. La razionalità lo ha abbandonato; è divenuta una caratteristica essenziale delle organizzazioni impersonali. L’esaltazione del soggetto sa di retorica insopportabile; si fonda su un pensiero predatorio, incapace di comprendere perché incapace di ascoltare. L’esaltazione acritica dell’individuo è inaccettabile, oggi, poiché si lega a un euro-centrismo, il quale, retorica e missione civilizzatrice a parte, si è storicamente specializzato e reso celebre per il dominio dispotico, la persecuzione razziale e il genocidio, fisico e morale, di massa”.

Ritornava anche lui sulla questione contraddittoria di un aggregato di soggetti che si mettevano insieme, volendo mantenere la loro qualità di soggetti ma subendo anche la pressione del loro stare insieme. Due forme di lievito di incerta mistura e di altrettanto ambiguo sapore imponevano pensieri non poco ‘drammatici’: se muore il soggetto, si domandava, che cerca, pur essendo legato agli altri, di slegarsi e liberare la sua energia creativa, che cosa mettere al suo posto? Gli veniva in mente quella statua di Laucoonte che cerca di svincolarsi dai serpenti marini, e però rimane lì con la bocca aperta e sofferta a lottare, a lottare per sé e per i suoi figli. La lotta: ma la lotta stessa gli sembrava un’avventura assurda nelle grandezze incontenibili dell’assurdo. Infatti era esattamente quella regione illimitata nella quale si egli addentrava sempre con molta circospezione, ma non trovava se non cose informi per quanto ostentassero qualche forma. Ma la forma sfumava nel grigio, nonostante i suoi colori. Grigio, grigio. Ma il grigio non era appunto la scomparsa dell’individuo? E poteva questa scomparsa permettere qualcosa di buono? Anzi di ‘migliore’? Ma che senso dopotutto avevano questi termini? Il grigio penetrava in lui. Si scosse e proseguì:

“Sta di fatto che i giovani sono forse più informati di quelli d’una volta, ma leggono certamente di meno o leggono, con avidità, libri che non sono più libri, ma beni di consumo, pubblicizzati e diffusi come le automobili o i detersivi. Interrogarsi sulla pagina, rileggere un capoverso riflettere su un pensiero sono divenute operazioni rare, curiose e fin stravaganti” .

Non era il suo caso, ma sentiva di essere in una condizione speciale: vedeva infatti i suoi giovani colleghi darsi ad una pazza gioia senza gioia, anzi con parecchia noia, sorvolando davvero su questo e su quello senza nessuna pausa, che permettesse di fermarsi, accovacciandosi in un angolo e riannodando i pensieri. Una volta si era imbattuto in un bisbiglio acutissimo proveniente da una feritoia quasi insignificante: Redi in te ipsum! Aveva riconosciuto il latino di un famoso, tormentato e finanche sospettato padre della Chiesa, che aveva appreso essere una grande burocrazia del divino. Tornare dentro se stessi: non era affatto facile, meditava, se l’andazzo, di cui egli stesso soffriva, era al contrario diretto non tanto verso l’interno ma verso l’esterno. Dove nessun conforto era possibile se non proprio nel continuo andazzo in quanto tale e l’andare si coniugava con ‘pazzo’ in una ‘sinfonia’che aveva qualcosa di surreale per quanto molto reale. Pensò che era meglio continuare a sfogliare le foglie:

“Questa preghiera silenziosa, che non si rifà né chiede aiuto a stereotipate formule liturgiche ma si fa, appunto, tra sé e sé, va al di là delle tipologie classificatorie e contribuisce a farci comprendere il senso proprio della preghiera come l’abbandonarsi: un momento di stasi che talvolta può preparare e risolversi nell’estasi; la quiete di chi si sottragga alla tensione competitiva del mercato, quel distacco e quella remissività, nel senso di non-volontà, che rinuncia alla rappresentazione per aprirsi , in maniera completa e protetta, all’esperienza in tutta la sua indeterminazione” .

Si sentì toccato nelle corde più segrete; si domandava se già starsene nella sua camera a riflettere, pensare, meditare, piuttosto che ‘agire’ come pure voleva la sua natura, non fosse già un pregare. Ma pregare come una sorta di ritiro gli suscitava la preoccupazione dell’esilio: dell’assenza dal mondo che pure chiedeva la sua opera. Da’altra parte, la sua opera, mentre ne discuteva tra se e sé, poteva essere in quanto opera alquanto ‘rischiosa’ essendo un modo per modificare il mondo. Che fare? Il dubbio su come agire, ossia su come immettere il suo ‘soffio’ o veramente solo la sua vita in quanto necessità di vita, era stato sempre assai presente nella sua mente in evoluzione; per fortuna aveva dalla sua l’abitudine, la consuetudine, la tradizione: una difesa povera, che di volta in volta riusciva abbastanza confortante non foss’altro che per l’idea mimetica che altri avevano in passato fatto le stesse cose. Se si proiettava nel futuro, lo sforzo di credere diventava finanche oppressivo; e la preghiera rappresentava una compagna di viaggio che non aveva un’autentica fisionomia, neanche un’immagine vaga, solo una lieve aura, una specie di eco che richiamava a lontananze estreme dello spirito oltre lo spirito.

Si impose di ritornare con i piedi per terra, ed esplorare altri argomenti; estrasse un’altra foglia:

“La ragione fondamentale dell’attuale crisi del concetto di cultura come esclusivo termine normativo è dato dalla sua strumentale incapacità di comunicare con l’altro da sé su un piede di parità. La società multiculturale che batte alle porte richiede un tipo diverso di cultura con cui la tradizione mediterranea appare essenzialmente compatibile - una cultura che sappia riesprimere i criteri di eccellenza e i termini dell’autovalutazione critica in una società di massa e in un mondo caratterizzato non più da processo storico diacronico, bensì dalla compresenza sincronica di tutti gli esseri umani su scala planetaria” .

Seguendo il filo abbastanza discontinuo delle sue avventure mentali, non capì a tutta prima di che cosa si parlasse in questo frammento. Ma scommise sul ricorso a quella straordinaria e incomprensibile aggregazione di soggetti che aveva precedentemente commentato. Ritenne infatti che la cultura fosse dopotutto un’altra espressione per dire della società, della società presa nella sua anima: avendo già chiaro che la società fosse certamente visibile e tangibile ma anche assolutamente diafana e impalpabile; una società che esistesse in luoghi segregati e forse anche un po’ sacri, laddove si mobilitano e consumano idee, valori, simboli, e una serie di altre cose che rimangono sempre nelle retrovie e però spingono ad agire. Già proprio quell’agire che aveva appena messo in questione; certo si poteva anche ritenere che fosse finanche possibile incontrarsi e comunicare creandosi così una comunità capace a sua volta di un respiro unico e di un agire di conseguenza, quasi senza alcun distacco e sentendosi confortati da questo superiore convivio. Ma era una preghiera, una speranza, un’utopia, una intenzione, una volontà, una possibilità: insomma un al di là da venire per il quale agire! Cominciava a nutrire una buona dose di antipatia per questo agire, agire, agire. Era in effetti un ‘dovere’, ma come tutti i doveri non suscitava alcun fascino; al contrario! Andò avanti nelle sue estrazioni virtuose: ma non ebbe molta fortuna!

“Per capire la politica, bisogna farla. Chi non è entrato, almeno una volta, nelle fumose stanze, non può scrivere di politica, tanto meno di scienza della politica”.

Non si era imbattuto proprio nella dimensione più genuina e collettiva dell’’agire? Del fare in funzione di una proiezione verso il cosiddetto futuro, probabilmente in base ad un elaborato, o apparentemente elaborato, ‘piano’, progetto o altro? Certo trapelava una certa superbia in tutta quella storia, quella ybris che aveva urtato così profondamente gli dei e che continuava ad essere una ‘sfida’ in una competizione che chiamava ancora in causa gli dei, differenti, amici e nemici, normalmente invidiosi e irascibili, tra i quali destreggiarsi con arti nobili e ignobili. Abbandonò ben presto questa meditazione ripromettendosi di rinvigorirla con qualche supplemento di critica, di rimpianto e di spudoratezza come richiedeva d’altronde il tema. Proseguì nella sua impresa di collezionista esegeta.

“Sta forse cominciando un’altra storia. Non ci sono più immigrati ed emigranti. Siamo tutti migranti. Viviamo in un mondo in movimento. I mezzi di comunicazione di massa in tempo reale, la comunicazione elettronicamente assistita hanno ristretto il pianeta. Ma le categorie del giudizio culturale e civile segnano il passo, sono in ritardo sugli sviluppi dei processi vitali. Questo ritardo gronda lacrime e sangue. La mediocrità della leadership politica genera mostri”

Non poteva che sentirsi a suo agio! E’ vero, siamo tutti migranti, convenne senza ombra di dubbio: mobili e tuttavia immobili. Nel migrare nessuno davvero emigra; e se emigra, non valgono per caso le insidiose domande di quel grande poeta lucano anche un po’ antelucano?

Quid terras alio calentes
Sole mutamaus ? Patria qui exul
Se quoque fugit ?

Non emigriamo mai da noi stessi. Da che cosa emigriamo dunque? Lo spazio: ecco un bel territorio di problemi oltre che un territorio di luoghi. Emigriamo nello spazio, emigriamo negli spazi: essendo anche lo spazio multiplo e infinito, il‘nostro’ spazio, lo spazio degli altri: là siamo davvero vicini sulla terra, anzi siamo proprio adiacenti, sovrapposti, intrecciati come è un paniere di vimini. Si, non si capisce bene la ‘distanza’, quella distanza che una volta permetteva intervalli enormi dove la vita si svolgeva senza gli intoppi delle notizie che arrivavano, per fortuna con il giusto ritardo, dalla Persia o dalla Gallia. Nostalgia di un tempo pieno di intervalli e di uno spazio denso di interstizi. Era in quelle soste un sostare davvero, uno stare, un essere sostanza! Si accorse che stava andando verso la filologia, che aveva sempre amato e detestato: perché dentro di essa vedeva le origini ma anche la dissolvenza delle origini, come accade nella variazioni lievi o estreme dal tema, ossia dalla ‘radice’, che può diventare remota radice.

Si astenne dal procedere per un momento, assorto e turbato. Quasi distrattamente prese da terra una foglia tutta accartocciata e la distese sul tavolo, per quanto grande, ormai ingombro.

“Si costruiscono tutt’intorno una corte di mediocri. Mettono i somari in cattedra a scopo autoprotettivo. Caligola che fa senatore il proprio cavallo è al confronto un timido dilettante. L’atmosfera curtense dilaga. La mediocrità dell’università è garantita dall’usurpazione da parte del potere amministrativo di una funzione che non gli spetta. Ai migliori studiosi, che non stanno al gioco, non resta che fuggire…”

Se avesse dovuto esporre ad un pubblico più vasto la sua impressione, avrebbe detto che era cambiato il tono e l’umore dell’ignoto artefice; emergeva da quelle espressioni una collaudata verve polemica ma anche una forma di triste rincrescimento e di grave delusione. Ricorrendo alle risorse delle sue conoscenze storiche, aveva individuato l’oggetto, l’università, che egli metteva in relazione, appunto, con universalità: ossia con un intento di coerenza di un universo rivolto a tutti in una forma di coinvolgimento etico prima che propriamente noetico, come avrebbero detto i suoi archeologi maestri. Gli sembrava in effetti che in questa vicenda ci fosse un tasso elevato di profanazione, proprio come accadeva dei mercanti nel tempio. La volgarità della mercatura era penetrata dunque in un luogo virtualmente estraneo a quelle pratiche, ma che ormai era internato anch’esso nel labirinto della secolarizzazione più bieca del mondo, laddove bassezze, parricidi, frustrazioni, servilismo, ignoranza, vuotaggine, e una serie di altre potenze negative, deprivate di ogni ormai desueta virtù, formassero un grumo di mediocrità incoerente con il nome. Il nome non era più la cosa, come voleva un famoso filosofo germanico, e il fatto toccava dunque l’essenza.

La metamorfosi si compiva tuttavia con molte complicità sia del passato che del presente, senza reazioni, in maniera quasi naturale: cosicché la sapienza si erigeva ormai come un fregio senza aureola sul deserto delle molte ‘sapienze’ locali, università senza universalità, sapienze senza sapienza. Il languore sollecitò l’ultimo ascolto.

“All’improvviso, tutto il bosco ha un fremito.

“Vieni - mi dice sottovoce la quercia-madre, stringendomi forte a sé – vieni. Mi sembri lontano, ormai, dai miti che pesano sugli uomini, Hai lasciato per sempre la vuota boria quei delirii antropocentrici che, a partire dal sogno demiurgico dell’Occidente, hanno fatto credere che tutto il creato fosse al servizio dell’homo sapiens e che da lui andasse ‘istruito’. Tu hai capito che la vera saggezza sta nel riconoscere che animali non umani, esseri umani e tutto il vario e vivo mondo vegetale sono una grande fratellanza. Finalmente, l’hai capito. Vieni. Sei uno di noi:

”Così è cominciata dopo quella umana la mia vita di albero: tranquilla, silenziosa, autosufficiente ed autoposseduta, contemplante. Respiro. Il silenzio s’allarga di notte. Tutto tace. Il mondo non c’è più. Essere. Essere nell’essere. Accettarsi pulviscolo nel cosmo”

Avrebbe voluto continuare; ma fu preso dalla stanchezza per quell’esercizio veramente suggestivo, ma anche molto impegnativo, appunto di ’riflessione’. La fatica stava proprio nel piegarsi verso se stesso e il proprio interno, mentre la vocazione consueta e più ovvia era, come ben sapeva, quella, sua e dei suoi colleghi, di piegarsi verso l’esterno e verso gli altri. Ma proprio questo apparente modulo bidirezionale mostrava di essere fortemente barcollante, a causa di commistioni inevitabili tra esterno e interno e la difficoltà infine di distinguerli. Ancora il Chaos si affacciava da porte e finestre con il suo sorriso sarcastico e il volto alterato da mille espressioni simultanee. Mise le braccia sopra il tavolo e con la testa reclinata sulle braccia si assopì, con il presentimento che non poteva essere del tutto estraneo ai vapori emanati da quelle screziate superfici, coinvolgenti, dopotutto, anche il suo essere, o non essere.

Quando si risvegliò dopo quella breve ma riposante siesta, le sue foglie-fogli si erano alquanto irrigidite e nell’irrigidirsi avevano ravvivato anche i loro colori. Fece più di un inserto, le-li distinse per argomenti, e le-li dispose in bell’ordine sulla parete, ripromettendosi di ricoprirla interamente in seguito, con nuove raccolte nei giorni successivi. Non c’è che dire, facevano un bell’effetto: che era solo un’anticipazione dei contenuti grondanti di ‘pensieri’e ‘teorie’. Se fosse o non fosse un’autentica ‘lezione’ lo demandava ad altri viandanti, ed eventualmente alle loro residue capacità di intendere e di volere.

Le cose cambiano di posto ma niente si muove davvero. Trascorrono e ritornano mucchietti di foglie si accumulano da una parte e da un’altra, vanno, ritornano, si fermano per istanti o più a lungo. Si lacerano, si insinuano a pezzi, filtrano humus in certi luoghi, introducono fermenti inaspettati in altri, contribuiscono a elaborare nuove forme, costituiscono alimento per fertilità ulteriori. Molte protuberanze terrestri non se ne accorgono, e, se godono di quei materiali energetici non amano mostrarli né riconoscerli nella loro ibrida spirale retrostante per questioni sintomatiche di competizione tra protuberanze. Ma in canti appartati, attenti raccoglitori segreti custodiscono antologie stabili e durevoli nel divenire che non diviene: in quelle caverne o in quei pertugi dove sibila l’intelligenza nell’intelligenza del mondo e le evidenze sono evidenze. Molti erano gli amici che lo visitavano e discutevano di quelle collezioni frammentarie ma dense, nonostante la loro consistenza solida, di liquidi sussurri e di aerei bisbigli. Erano anch’essi convinti che le querce sono le loro foglie.

Nelle lunghe sere d’inverno, meditavano sulla loro opera, su quell’interminabile fatica del fare e del disfare, sommando e sottraendo, dividendo e moltiplicando. Alla fine sempre trovandosi e non ritrovandosi al momento di stilare il conto. Così, in pratica, finivano sempre col rinviarlo, modulando un destino senza destino, forse miseria, forse grandezza, mistero.

Queste erano le autentiche ‘elaborazioni, anche in parte collettive, di Euros jr., amante dei numeri e collezionista di parole in quella remota contrada del mondo, o della terra. E indefesso custode di solidi argomenti in uno scorrere interminabile verso mari ed oceani sempre mobili e atmosfere sempre mutevoli. Ossia verso l’inconsistenza di cose, esseri e, ovviamente, “uomini” come sembrava si chiamassero, almeno nel loro auto-linguaggio, quei modesti esseri verticali, fuoriusciti dalla terra.

Se ne stava lì, nella quiete della sua camera; quando udì un rumorio che diventò via via più forte, fino a diventare un frastuono. Si domandava di che cosa si trattasse e attraversato come da un lampo si ricordò che incominciava la Convention annuale, che si teneva appunto nel grande auditorium della residenza rodopica. Ovviamente anche a lui e ai suoi giovani colleghi era riservato un posto in tribuna, con possibilità di intervento. Si avviò, dopo aver scelto dall’armadio uno dei suoi mantelli più eleganti e ricamati con uccelli e farfalle di colori così intensi e sfumature così ben modulate da far invidia ai più rinomati paramenti dei re antichi, verso l’auditorium, salì per le scale, e ritrovò subito il suo seggio n. 121 nella tribuna posta al primo piano. Giungevano via via tutti i maggiori protagonisti dell’importante consesso, con un piccolo seguito di segretari ed attendenti che scomparivano appena dopo aver accompagnato i loro signori ciascuno al tronetto color cremisi e verde vivo a suo tempo assegnato. Arrivò Lips, Skyron, Kaikias, Apeliotes, Boreas, Zephiros, Notos e anche suo padre Euros. Si poteva ben dire si trattasse della schiera dei vecchi e venerandi senatori, la cui compostezza, nella diversità dei caratteri, era del tutto acquisita, come il portamento, onorevolmente vetusto. Ma, essendo alquanto old fashoned, non suscitavano la stessa curiosità e interesse che suscitavano altri protagonisti di quella straordinaria riunione. Khamsin era meravigliosamente avvolto in una veste bianca di seta con strisce laterali di color verde e un turbante altrettanto bianco, grandissimo che metteva in luce il volto color cioccolata, ornato di una barbetta curatissima e alquanto sarcastica, e scolpito da occhi scuri e penetranti; Ghibli vestiva di un caffettano color paglierino, ricamato fin nei più remoti angoli, e gesticolava con una certa insofferenza, qua e là mostrando tracce di una polvere rossastra, anche sulle mani sempre in movimento; Harmattan mostrava un volto energico e un fare assai spiccio se non rude, e faceva quasi fatica a restare nel suo abbigliamento sfarzoso e un po’ kitch fatto di tuniche e mantelli leggeri sovrapposti quasi come piume; Buran, aveva l’aria di un vecchio tutto bianco, capelli bianchi, barba bianca, occhi a mandorla e sopracciglia luminescenti di piccole gocce di cristallo, tutto avvolto in una pelliccia di ermellino anch’essa ondeggiante di colori argentei. Maestral, Auster, Favonius, Transmontanus, Graecalis, Syriacos, Lybicos formavano il gruppo abbastanza numeroso - dotato di una certa autorevolezza per quanto assai grigio e burocratico, sempre alla ricerca di carte di nobiltà, e spesso inquieto e litigioso - dei rappresentanti del cosiddetto Occidente, luogo assai impervio e in particolare assediato da personalità indocili ed egocentriche, spesso autolesioniste. Una grande allegria, mista a baldanzosa speranza, suscitavano invece Chinook e soprattutto Pampero: il primo con una grande e variopinta livrea di penne di uccelli grandi e sconosciuti e mocassini elegantissimi e lievi sui quali si muoveva come in forma di danza; il secondo con un grande cappello rovesciato sulle spalle, i capelli neri e un po’ scarmigliati, grandi baffoni neri e barbetta rada, calzoni ampi di color rosso vivo e mantello istoriato e frange lunghissime. Certo, la rappresentanza femminile era molto modesta, visto che soltanto i seggi più lontani erano riservati a fanciulle assai esili, biondissime o nerissime, che si muovevano con la grazia e la mobile cortesia delle brezze.

Euros jr. meditava e meditava su quella assemblea di personaggi – a cui egli stesso apparteneva - che aveva eletto il moto come mezzo e fine; in realtà anche il moto era relativo non per questioni di relatività, ma per questioni teoretiche di vocazione, ossia di Beruf o Calling del moto alla quiete, alla immobilità delle essenze. Era la stessa ragione assai personale per cui raccoglieva foglie-fogli, in cui l’effimero rinviava necessariamente alle costanze. Così continuava la sua giornata di ‘intellettuale’ naturalis-naturaliter, di vento-evento: sensibile al richiamo delle querce, devoto alla lingua delle foglie.

Mario Aldo Toscano

 

 

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