a proposito di...
Atman il respiro del bosco.
Recensione di Piera Mattei
Franco Ferrarotti, Atman il respiro del bosco, Roma, Empiria, 2012
La vita, vista da uno sguardo posto nel cosmo a distanza illimitata ha una
circolarità perfetta e indolore: si torna lì da dove siamo venuti, tutto
torna a essere ciò che era stato. Pulvis es et in pulverem reverteris,
recitava il rito latino dell'annuale cerimonia delle Ceneri, parafrasando il
cupo materialismo dell'Ecclesiaste. Vanitas vanitatum et omnia vanitas.
Tutta un'intera vita – i dolori, le gioie , il successo, le passioni, libri
letti e scritti, la bellezza, l'orrore – non è stata che una parentesi, e
ogni vicenda si ridurrà, per tutti, a poca polvere?
Tornerà in circolo con alcuni elementi e non altri, dice oggi lo scienziato.
Sono quel numero di elementi che compongono la vita in tutte le sue forme.
Circolarità imperfetta potremmo chiamare il destino di noi esseri non solo
sensienti ma anche, per nostra fortuna, sorte e disperazione, coscienti, se
riflettiamo sul senso di ripugnanza che quel trapasso da una forma ad altra
– la morte – in tutte le sue forme ci procura.
Questo libro, il più recente di Franco Ferrarotti (ma il più recente fino a
quando, se l'autore dimostra un impulso inarrestabile alla scrittura?),
profondamente respira in questa circolarità, in cui sembra sentirsi a
completo agio, così da comporre una piccola deliziosa opera, coerente in
ogni sua parte, anche se ambisce, come sempre nello stile del suo autore, a
una onnicomprensione enciclopedica (mi si passi l'eccesso, utile, credo, a
rendere il traboccante temperamento del suo autore), a un onnivoro appetito
culturale.
L'autore parte dalle sue origini legate alla terra e ritroviamo i bellissimi
racconti di un'infanzia fragile e già molto volitiva, il forte e
straordinario ritratto di un padre che lavorava nei campi sempre col
cappello nero sulla testa, come un rabbino in preghiera, una zia rimasta
nubile ad allevare la prole del fratello, insomma un mondo altro, una
famiglia "larga" così com'era una volta in campagna. Larga "naturalmente"
con il laccio che, volenti o nolenti, teneva insieme i membri di una stessa
piccola comunità piramidale – non perciò famiglia, come oggi, "allargata"
nelle più varie e fantasiose composizioni. Ricordi lucidi di molti decenni
fa, sempre aperti a dotte digressioni, a citazioni, a rimandi, riflessioni
su domande a cui non si è data, e forse non si dà, risposta.
Nel corpo centrale del libro l'autore, attraverso una vicenda attuale (una
seccatura burocratica), viene richiamato a quella terra che l'ha visto
nascere. S'innesta così sul racconto autobiografico un discorso più
ampiamente storico-sociologico di quell'area del Vercellese, tra Trino
Palazzuolo e Robella: le vicende delle famiglie, i tracolli economici, le
anagrafi e i catasti, i cognomi.
Chi ha reso possibile il richiamo, chi ha effettivamente lanciato il
richiamo, non è poi un piccolissimo burocrate, ma una creatura multipla, la
fissa e inamovibile comunità del bosco, gli alberi. Il bosco avuto in
eredità diventa a questo punto un co-protagonista, che, come può, e
avanzando argomentazioni sulla sua parità, o superiorità addirittura,
rispetto alle altre specie viventi, reclama dal protagonista-uomo attenzioni
e responsabilità. Quest' ultimo, dopo aver schivato a lungo i suoi obblighi,
si avventura tra quelle creature arboree. Lì, avviluppato tra gli sterpi e
le vitalbe, si perde (o vuole perdersi?). Conclude col fare del bosco il suo
ultimo, definitivo rifugio.
In effetti, riflette il protagonista, una metamorfosi in creatura vegetale
può essere il modo per evitare il passo ineluttabile e ripugnante della
morte, di assicurarsi, se non la mitica immortalità, almeno una longevità
non concessa alla sua propria specie.
Finire così, dunque: abbracciato a una quercia centenaria, quercia-madre che
"come tutte le madri è un'ombelicale carceriera, dolce fino alla crudeltà
estrema".
Eppure anche dopo il cambiamento, che passa attraverso una dolorosa e
umiliante evirazione, il protagonista non cessa di parlare con la quercia
degli argomenti che più sembrano stare a cuore a lui come uomo di cultura,
come professore che era stato, (realizzando in pieno gli antichi sogni della
zia): l'abbandono, l'incuria e il decadimento di quell'ambiente
universitario a cui a dato più di cinquanta anni di vita.
Il bosco forse non aveva mai sentito prima questo tipo di sospiri. E le
piante, lievemente agitandosi, diffondono quelle parole, così come il loro
generoso seme, nel vento.
Piera Mattei